Legge elettorale: i cinque tentativi dal '96 a oggi

publiziert: Dienstag, 2. Jan 2001 / 09:38 Uhr

Roma - Riforma elettorale, chimera o realta'? Il provvedimento sara' in aula al Senato dal 9 gennaio, con il centrodestra che non ne vuole piu' sentire parlare ed il centrosinistra che, al contrario, sembra determinato ad andare fino in fondo anche a 'colpi di maggioranza', incalzato soprattutto dalla richiesta che viene in tal senso dal Prc. Materia del contendere e' il ddl Franceschini-Villone scritto e riscritto dalla maggioranza piu' volte negli ultimi mesi, anche nel tentativo di venire incontro alle d

Ne risulta un sistema misto maggioritario-proporzionale a turno unico (75% dei seggi assegnati con il maggioritario, a candidati in collegi uninominali, 25% riservati ai candidati piu' votati all'interno di liste bloccate di partito) omogeneo per Camera e Senato. Altre caratteristiche sono l'indicazione diretta del nome dei candidati premier all'interno dei simboli del maggioritario, la scheda unica, possibilita' di voto disgiunto, il premio di maggioranza per la coalizione che nel maggioritario supera il 40% ma non arriva al 55%, in modo da garantirle comunque il 55% dei seggi, la soglia di sbarramento al 5% per accedere ai seggi in palio nella proporzionale.

Al 2001 la risposta se questo, che e' il quinto tentativo di riformare la legge elettorale in questi cinque anni di tredicesima legislatura, avra' la fortuna di diventare legge oppure e' destinato a passare agli archivi come e' accaduto nei quattro tentativi precedenti. All'inizio della legislature tutte le forze politiche mettono agli atti la volonta' (e qualcuna deposita anche pdl nelle commissioni Affari Costituzionali) di riformare il sistema elettorale. Dopo la vittoria di Prodi e dell'Ulivo del 21 aprile 1996, c'e' la convinzione 'bipartisan' di Polo e Ulivo che il Mattarellum non garantisca la stabilita'. Il confronto, pero', entra nel vivo con la commissione bicamerale presieduta da Massimo D'Alema alla quale all'inizio del 1997 il Parlamento assegna il compito di riscrivere la seconda parte della Costituzione. Seppure formalmente estranea alle riforme costituzionali, quella elettorale appare fin dalle prime sedute della commissione come il 'convitato di pietra'.

Tanto che D'Alema, dopo averne sulle prime sollecitato il collegamento con il lavoro sulla nuova forma di governo, ne rinvia il confronto a dopo le scelte sul modello di riforma costituzionale.

Anche perche' a solo una settimana dall'insediamento della bicamerale (13 febbraio 1997) l'aula di Montecitorio boccia a sorpresa la cosidetta 'legge Rebuffa' sostenuta da Fi, An e la maggior parte dei Ds: una legge fatta apposta per consentire la celebrazione di referendum che aboliscano la quota proporzionale della Camera, in precedenza non ammessi dalla Consulta per timore del 'vuoto normativo'.

A vincere sono le piccole forze politiche (apertamente contrari sono Lega, Prc, Ccd, Cdu, e Verdi) ma soprattutto i franchi tiratori: un vero e proprio messaggio ad evitare 'inciuci' fra le maggiori forze politiche e a tenere sempre a mente che abolire del tutto la proporzionale in Parlamento non e' cosa facile. Quanto conti il segreto dell'urna a difesa dei seggi esistenti, la bicamerale lo misura anche con le difficolta' che incontra per ridurre il numero dei parlamentari e trasformare il Senato in Camera delle Autonomie.

Piu' volte affacciatasi alla finestre della bicamerale con audizioni di professori (Sartori illustra i vantaggi del doppio turno di collegio collegati al semipresidenzialismo, Barbera quelli del doppio turno eventuale collegati al premierato, Cheli il modello Westminister), la riforma elettorale rientra dalla porta nella sala della Regina quando Bossi fa tornare i suoi commissari a prendere parte ai lavori disertati dal giorno dell'elezione a presidente di Massimo D'Alema, per affondare a sorpresa il 'premierato forte' a doppio turno sostenuto da D'Alema, con l'obbiettivo di delegittimare la stessa commissione. ''Chiudiamo il teatrino'', dice ai giornalisti.

La contromossa e' affidata al plenipotenziario di Berlusconi Gianni Letta che, spalleggiato dal segretario del Ppi Franco Marini e dal presidente di An Gianfranco Fini, convince D'Alema e Berlusconi a riunirsi il 17 giugno a casa sua e stringere il celeberrimo 'patto della crostata'. E' un'intesa che fa salva la scelta per il semipresidenzialismo frutto dell'operazione 'corsara' di Bossi e la collega ad un sistema elettorale (il doppio turno di coalizione) che D'Alema suo malgrado accetta (si fa bocciare in commissione il suo emendamento per il doppio turno di collegio).

La bicamerale chiude i lavori approvando, con i voti di tutti i partiti (eccetto Ri, Occhetto, Spini e altri singoli difensori ad oltranza del doppio turno) un'odg che impegna il Parlamento ad un sistema elettorale su quel modello, da tradurre in norme una volta che l'aula avra' approvato la proposta complessiva di riforma della Costituzione. Il che, pero', non avverra' mai. E cosi', quando nei primi mesi del 1998, la riforma costituzionale naufraga nell'aula di Montecitorio, alla deriva finisce anche il suo progetto di riforma elettorale. Tocchera' poi di nuovo a D'Alema, nei nuovi panni di capo di governo, riproporre il tema al Parlamento in vista dei referendum che l'anno dopo Segni, Occhetto, Di Pietro e Pannella riescono farsi ammettere dalla Consulta per abolire la quota proporzionali e per i quali annunciano, con Cossiga e Prodi al loro fianco, voler promuovere gia' all'indomani della chiusura per fallimento della bicamerale.

Il secondo tentativo di riformare la legge elettorale in questa legislatura ha come protagonisti i promotori del referendum per abolire la quota proporzionale (a Segni, Occhetto, Di Pietro e Pannella in prima fila, si associano con minore esposizione prima Cossiga, Fini, D'Alema e Veltroni e poi, una volta caduto il suo governo, Romano Prodi). Ma non mancano le divisioni fra chi punta al doppio turno francese, chi al sistema americano, chi vuole mantenere il Mattarellum cosi' com'e' senza la proporzionale. D'Alema, alla riforma elettorale pensa da palazzo Chigi dove chiama Giuliano Amato come ministro per le Riforme, ribaltando la scelta del governo Prodi di restare neutrale. Amato incardina, con le procedure di revisione costituzionale previste dall'articolo 138 della Costituzione, diverse riforme della bicamerale, a partire dal federalismo (e' il consiglio dei ministri del governo D'Alema a varare la relativa proposta) e dalla forma di governo.

La prima andra' avanti ed il suo successore Antonio Maccanico la portera' a compimento, la seconda restera' lettera morta. Quanto alla riforma elettorale, sulle prime Amato lavora di sponda con la maggioranza e inizia a tessere la tela con Fi, con periodici incontri informali con Gianni Letta e stringendo un buon rapporto con il capogruppo azzurro in Senato (dove vengono dirottate le proposte di riforma elettorale, mentre la prima commissione della Camera si occupa di quelle costituzionali) Enrico La Loggia.

In attesa della sentenza della Consulta sul referendum gia' respinto una volta, in prima commissione al Senato riparte senza fretta l'iter parlamentare. Formalmente si contrappongono una dozzina di testi: il sistema francese di Cossiga, il ddl Di Pietro per il doppio turno di collegio che recepisce una pdl di iniziativa popolare sulla quale raccoglie firme anche buona parte della nuova leadership veltroniana della Quercia. E c'e' Fi, che fa suo con un testo di La Loggia 'il patto della crostata' per il doppio turno di coalizione.

I poli si confrontano serratamente e fioccano mediazioni e varianti. Poi, quando nei primi mesi del 1999 la Consulta ammette il referendum, convocato per la primavera, D'Alema e Amato giocano tutte le loro carte e fanno approvare dal Cdm la proposta della maggioranza per il doppio turno di collegio, sulla quale Fi sembra pronta a lavorare se il referendum, come credono in molti, abolira' la proporzionale. Anche per sconfessare chi, come Pannella o Fini, assicura che, abolita la proporzionale, le cose potrebbero anche restare invariate.

Si tratta del cosidetto ddl Amato-Villone a doppio turno di collegio, che prevede il 90% dei seggi della Camera assegnati con il maggioritario ed un 10% assegnati con la proporzionale come diritto di tribuna. La stessa proposta che, formalmente, andra' in aula al Senato nel gennaio 2001 e che la maggioranza modifichera' in quella sede con un suo maxiemendamento. Un nuovo tentativo, insomma, di mettere in mora i partiti piu' piccoli (''dobbiamo sfoltire un po' di cespugli'', ammette anche Fini) al quale non si da attendere la risposta. Da Bertinotti a Bossi, passando per Boselli, Marini, Verdi e Buttiglione, si delinea un fronte per il 'no al referendum'.

Berlusconi, viste le discussioni interne a Fi fra i sostenitori del si' come Martino e Biondi e del no come Urbani, sceglie per la liberta' di voto. Va a votare solo a sera quando il quorum sembra superato e dunque appare scontata la vittoria del si'. In tv, con qualche equilibrismo, il Cavaliere riesce comunque a cantare vittoria anche con il fronte del no quando, a sorpresa, intorno alla mezzanotte e dopo che Prodi, Fini e Segni avevano gia' brindato alla 'scomparsa per sempre' della proporzionale, il Viminale annulla il referendum perche' per una manciata di voti non viene raggiunto il quorum.

Il fallimento del referendum, nonostante timidi tentativi di fare ancora qualcosa in commissione, si porta dietro il fallimento del secondo tentativo di rifoma elettorale. All'indomani stesso della sconfitta, e' Fini che prende in mano la bandiera di una nuova iniziativa di riforma elettorale per via referendaria, chiedendo al partito di impegnarsi per tutta l'estate 1999 a raccogliere le firme su un quesito identico a quello respinto, come 'condicio sine qua non' per restare alla guida di An.

Fini ha bisogno di rilanciare, dopo che insieme al referendum elettorale ha fallito nell'operazione Elefantino alle europee. Nel partito l'idea non convince troppo ma, alla fine, quasi tutti si impegnano e An da sola in tre mesi raccoglie 800 mila firme. In Parlamento, invece, giace in commissione il ddl Amato-Villone per il doppio turno. Nessuno sa se la Cassazione riterra' legittimo un secondo referendum-fotocopia a solo un anno di distanza da quello invalidato. E se poi la Consulta lo ammettera'. Entrambe le Alte Magistratura, la prima il 13 dicembre del '99 e la seconda ai primi del febbraio 2000, rispondono si' e i nuovi comizi referendari, dopo un tira e molla sulla possibilita' di abbinamento con le elezioni regionali del 16 aprile, vengono fissati per il 21 maggio del 2000. Ma il fronte del maggioritario da subito perde i pezzi.

La crisi del primo governo D'Alema, a ridosso del Natale '99, e' l'occasione per Cossiga per dire addio al sistema francese e rivalutare la proporzionale. Mentre Di Pietro fatica a convincere i Democratici ad impegnarsi seriamente anche questa volta: ottiene il si', ma la linea la da' Parisi e coincide con quella che Veltroni a gennaio espone al congresso Ds del Lingotto a Torino: restiamo per il maggioritario ma la riforma, con o senza referendum, la deve fare il Parlamento.

Una linea che sembra sulle prime non lontana da Berlusconi, piu' attento ora a stringere accordi con Bossi sulle regionali che seguire Fini nella nuova 'crociata' referendaria. D'Alema, presentando il suo secondo governo a fine anno, si distingue un po': ''mi impegno a far celebrare i referendum'', dice in Parlamento ottenendo cosi' l'astensione tecnica dei referendari di Taradash e Calderisi. Il nuovo anno favorisce l'addio di Berlusconi alla 'religione del maggioritario': ''terrificante'' definisce un suo aumento gia' nei primi giorni del duemila. E' l'inizio di una marcia di avvicinamento a quel fronte del no (Bossi, Bertinotti, meta' dei Popolari guidati da Zecchino, Urbani e molti altri) vittorioso la prima volta e che si ricostituisce, dichiarando da subito di voler puntare stavolta soprattutto sul 'non voto', per un trionfo dell'astensionismo.

In un paio di mesi sono prima Giulio Andreotti e poi Sergio D'Antoni i nuovi protagonisti di decine di inziative per il 'ritorno della proporzionale'. Una sorta di movimento politico-culturale ipertrasversale che culmina fra il 14 e il 21 marzo con la presentazione di una pdl per il sistema tedesco con sbarramento al 5% alla cui presentazione, all'ex hotel Bologna di Roma, c'e' anche Berlusconi. Con lui, Andreotti, Bertinotti, Boselli, Bossi, D'Onofrio, La Malfa, Urbani. Viene annunciata una raccolta di firme in tutto il Parlamento. Ma il risentimento di Fini e la vicinanza delle elezioni regionali (e' 'tentata' anche la sinistra Ds, ma Veltroni riesce ad ottenere che la minoranza del suo partito si limiti a scegliere l'astensione sul referendum senza impegnarsi nel movimento per la proporzionale, presentando invece una proposta autonoma ispirata al sistema in vigore nelle province uninominale-proporzionale), sconsigliano Berlusconi a impegnarsi personalmente e ad allargare l'adesione a troppi parlamentari. Ne' Bertinotti riesce a strappare agli insoliti compagni di ventura l'impegno da subito a votare in Parlamento quel testo all'indomani stesso del referendum, in caso di vittoria dell'astensionismo.

Quanto a Fi, al cui interno i referendari non mancano, Berlusconi rinvia la decisione ad un Cn successivo alle regionali di maggio. Assicurando pero' fin da marzo, nella manifestazione all'ex hotel Bologna, che i sondaggi certificano che ''il 52% degli italiani la pensa come me''. E cioe'? ''Io sono per il cancellierato ma andro' comunque a votare''.

Le regionali del 16 aprile, con la vittoria di Polo e Lega, portano alle dimissioni del secondo governo D'Alema. Il quale comunque, in Parlamento, chiede che dopo di lui sia formato ''un governo per fare il referendum'' a sostegno del quale ''saro' personalmente impegnato''. Una professione di fede che, da premier, gli era stata impedita dal monito dello Sdi, pronto a togliere il sostegno esterno qualora si fosse ripetuta l'iniziativa del governo sulla riforma elettorale a ridosso del primo referendum.

La questione del futuro del referendum e della riforma elettorale, con la crisi del governo D'Alema, passa nelle mani del Quirinale. Ciampi non nasconde il disappunto per una maggioranza che appare piuttosto sbandata e unita solo dal non volere le elezioni immediate che il centrodestra, forte dei suoi tanti presidenti di regione eletti direttamente, invoca a gran voce. Per questo, quando Amato esce dallo studio di Ciampi con l'incarico in mano (il 21 aprile) spiega di aver ricevuto un mandato preciso tutt'altro che limitato all'ordinaria amministrazione: fra l'altro, ''favorire una riforma elettorale dopo il referendum, pur restando neutrale''. Di Pietro vota contro il governo e chiede lui elezioni subito dopo il referendum. l'11 maggio, dopo una serie di rinvii, Berlusconi convoca il cn di Fi: l'indicazione finale e' per ''la liberta' di voto o non voto''. E, a titolo personale, il Cavaliere spiega che il giorno del referendum, lui sara' ''a lavorare, cosa ben diversa dall'andare al mare''. Nel frattempo, dopo mesi di proteste di Segni e Radicali, Amato e' nella bufera perche' tarda un decreto 'pulisci-liste' che elimini ''morti e fantasmi'' -dicono i referendari- dalle liste elettorali degli italiani all'estero, a loro giudizio fra le cause della mancanza del quorum nel referendum del '99. Il decreto arrivera', solo dopo un voto in Senato che vede An sottrarsi al no di Bossi e Berlusconi e salvare il si' di una maggioranza divisa, con il Ppi che non partecipa al voto.

Ma non bastera'. Il 21 maggio solo il 32% degli italiani va a votare il nuovo referendum sulla legge elettorale. 48 ore prima Berlusconi annunciava che, in caso di nuovo fallimento, si sarebbero potute aprire le porte per 'un governo elettorale' finalizzato ad una rapida riforma elettorale. Ma poi correggera'. Amato, d'altronde, non si dimette. E cosi' gia' 24 ore dopo il fallimento del nuovo tentativo di riforma elettorale per via referendaria (22 maggio a Genova), e' il capo dello Stato a spronare per un ulteriore sforzo in Parlamento per un'intesa bipartisan. ''Mi adoperero' -dice Ciampi- per favorire la riforma elettorale: e' l'ora di passare ai fatti''.

L'impegno di Ciampi, di cui Amato ed il ministro Maccanico si fanno interpreti in Parlamento, muove in due direzioni: l'approvazione della 'riforma federalista possibile' per dare una cornice al decentramento amministrativo delle leggi Bassanini che entrera' in vigore il 1 gennio 2001 e la riforma elettorale, sia essa anche minima ma in grado di assicurare governi stabili nella prossima legislatura. Berlusconi non e' contrario ed e' molto interssato all'indicazione diretta del premier, considerato uno strumento anche per superare il conflitto di interessi. I suoi alleati, pero', molto di meno. Fini, sconfitto sul rafforzamento del maggioritario per via referendaria, preferisce il Mattarellum ad una riforma che inevitabilmente potrebbe far salire la quota proporzionale. Bossi, invece, non vuole sentir parlare di intese: punta sui referendum regionali per la devolution quali strumenti per arrivare al federalismo e non vuole toccare in alcun modo il Mattarellum, sulla base del quale ha siglato l'accordo con Berlusconi sui collegi per la Lega al Nord.

Nell'Ulivo, invece, la doppia batosta regionali-referendum porta a puntare tutto su Amato e le riforme per concludere la legislatura e recuperare consensi. Il che significa, una consistente apertura alla proporzionale da parte di Ds e Democratici ed accelerazione sul federalismo che in Parlamento va avanti a colpi di maggioranza. A luglio del 2000 la riforma federale viene approvata dall'Ulivo in commissione alla Camera. A settembre anche l'aula dice si', dopo una settimana di ostruzionismo all'arma bianca del centrodestra. A novembre il Senato conclude la prima lettura sempre con i soli voti del centrosinistra, mentre la Cdl cambia orientamento e giustifica l'ostruzionismo per il no ricevuto al primo progetto comune Polo-Lega di riforma parlamentare, contenuto in dieci emendamenti comuni respinti dall'Ulivo. E' Veltroni a guidare la conversione della Quercia per una maggiore quota proporzionale, fra la soddisfazione di non pochi alleati. Il referendum che ha confermato il Mattarellum, infatti, riapre alla proporzionale da correggere con meccanismi di maggiore stabilita'. La proposta che ne segue e' il 'ripescaggio' della proposta Franceschini: premio di maggioranza, sfiducia costruttiva, indicazione del premier. Quest'ultima dettata anche dall'iniziativa dI Veltroni dell'anno precedente, che porto' alll'elezione diretta dei presidenti di regione. A giugno finalmente la riforma riparte in Senato. Ulivo e Cdl, dopo il rilancio di Ciampi, si accordano per suddividere il nuovo tentativo di riforme fra Camera (riforme costituzionali: federalismo e sfiducia costruttiva) e Senato (legge elettorale).

Del federalismo si e' detto. La sfiducia costruttiva, piu' volte rilanciata in documenti politici del centrosinistra, restera' sempre lettera morta. In Senato si decide una sessione giugno-luglio di ricognizione delle diverse proposte e discussione politica. Prima dell'estate e' solo l'incalzare di Ciampi, visto il no granitico di Fini e Bossi nonostante la disponibilita' formale di Fi a fronte dell'incalzare dell'Ulivo e di Amato e Maccanico (c'e' una triangolazione Quirinale-Berlusconi-governo affidata a Maccanico e Letta) che consente al presidente Villone di non considerare chiusa la questione.

A convincere la Cdl ci prova direttamente anche Amato che suggerisce alla maggioranza, che subito accoglie con apposito emendamento in Senato, di inserire nella riforma elettorale la legge ordinaria di attuazione della riforma costitituzionale che riconosce il voto degli italiani all'estero. Un'iniziativa che giustificherebbe una procedura accelerata, in vista delle elezioni del 2001. La Cdl, al contrario, si inalbera ancora di piu' e considera l'abbinamento fatto dalla maggioranza un modo per affossare la riforma e impedire il voto all'estero. Ed insiste per mandare avanti il ddl separato. Bossi resta immobile nel suo 'niet'. E si rifiuta anche solo di partecipare a nuovi vertici della Cdl per discutere l'ultima proposta, dopo un no sancito in modo ufficiale da un documento firmato in via del Plebiscito da tutti i leader. La Lega ha infatti bisogno di marcare le differenze dal Polo per catturare consensi fra gli elettori piu' radicali del centrodestra ed evitare una sua deriva troppo moderata che la porterebbe ad appiattirisi sul 'neocentrismo' di Fi. Berlusconi, che pure aveva pubblicamente annunciato una nuova riflessione da parte della Cdl chiude definitivamente il confronto a modo suo: convoca i giornalisti per dire che o la maggioranza fa sua una proposta del tutto diversa da lui formulata sul momento (premio di maggioranza al 60 sul Mattarellum per entrambi i rami del Parlamento) o addio riforma. L'Ulivo si indigna e il presidente diessino della commissione Villone, d'autorita' e non senza malumori nello stesso centrosinistra, cancella la riforma dall'odg dei lavori della commissione. Neppure il Quirinale riesce a evitare l'ennesima rottura fra i poli.

Il piu' indignato di tutti e' Bertinotti che condiziona ad una riforma elettorale piu' proporzionale un'eventuale 'non belligeranza' elettorale con l'Ulivo alle elezioni. Il 14 novembre, di ritorno dall'Europarlamento, avverte Rutelli. Se non andate avanti in Senato anche da soli, saremo certamente presenti in tutti i collegi del Senato: senza estendere almeno la quota proporzionale a palazzo Madama non potete chiederci di non presentarci per niente in quel ramo del Parlamento.

Rutelli riferisce ai leader dell'Ulivo nella saletta vip dell'aereoporto di Roma. Cossutta e' decisamente contrario: teme i troppi spazi a Prc nella proporzionale, ne' riesce a ottenere in cambio dell'intesa sufficienti garanzie sulla presenza del Pdci nei collegi e nelle liste, ancora incerte, che sosterranno l'Ulivo alle elezioni. Anche i capigruppo del Senato sono cauti: rischia di non esserci tempo e non e' certa la tenuta dei gruppi, a fronte di un prevedibile ostruzionismo all'arma bianca della Cdl. Il 16 novembre Rutelli si precipita alle 8 di mattina dai capigruppo del Senato dell'Ulivo riuniti a palazzo Madama per convincerli. E fa sua l'ipotesi di un immediato dibattito in aula al Senato, ''nel quale -dice- ciascuna forza politica dira' al Paese se vuole o non vuole le riforme, assumendosene le responsabilita''. Mentre rinvia ad una assemblea con tutti i senatori dell'Ulivo ed Amato la decisione sull' opportunita' di procedere anche da soli. Ma l'Ulivo, lo stesso pomeriggio in una conferenza dei capigruppo del Senato e' costretto a cambiare proposta. Preso atto che la Cdl e' pronta a mettere a rischio la stessa finanziaria in caso di si' al dibattito e paralizzare i lavori di entrambe le Camere (''non si piegano i lavori delle istituzioni agli accordi elettorali di parte'', tuona La Loggia), si decide per il ritorno della riforma elettorale in commissione: si riparte sempre il 21 novembre.

Le sedute in commissione di fine novembre vedono la conferma del no della Cdl a qualsivoglia dialogo: siamo fuori tempo, ripetono. E comincia l'ostruzionismo duro contro maggioranza e Prc che tentano di forzare i tempi mettendo sedute in notturna della commissione sulla finanziaria. L'Ulivo e' nuovamente costretto a ricredersi: la Cdl blocca i lavori dell'aula di palazzo Madama e mette a rischio la stessa finanziaria. Alla direzione Ds del 22 novembre, Veltroni rilancia l'idea di una assemblea straordinaria che riformi la seconda parte della costituzione nella prossima legislatura. Mentre Berlusconi, Bossi, Fini e Casini parlano gia' da tempo di Costituente. Ma il centrosinistra non e' unanime e il confronto su quest'ipotesi non decolla. In commissione, di fatto, i lavori sono paralizzati: la maggioranza va abbastanza avanti sulla riforma del sistema della Camera ma sul Senato gli emendamenti sono mille.

Con discrezione, ma anche determinazione, Mancino scoraggia quanti nella maggioranza vorrebbero premere l'acceleratore e mandare la riforma in aula senza voto della commissione subito dopo la finanziaria, nell'ultima settimana lavorativa dell'anno. La Cdl e' pronta a minacciare fuoco e fiamme in entrambe i rami del Parlamento, con la finanziaria che dovra' tornare alla Camera. Non senza qualche malumore, da una riunione a palazzo Chigi fra Amato e i capigruppo del centrosinistra l'11 dicembre emerge la decisione del centrosinistra di soprassedere anche a quast'ultimo blitz.

Il giorno dopo e' lo stesso Ulivo a chiedere a Mancino e alla conferenza dei capigruppo di calendarizzare per il 9 gennaio la riforma elettorale in aula, primo provvedimento del nuovo anno. Cosi' resta stabilito. Con un ultimo avvertimento che la Cdl lancia in aula alla maggioranza prima di affrontare la finanziaria: ''ripensateci, lo scontro sara' durissimo. Al Paese dimostreremo che una riforma elettorale a maggioranza fatta negli ultimi mesi di legislatura a campagna elettorale aperta, non puo' che essere solo per il vostro interesse''. La commissione chiude il lavoro sulla riforma elettorale senza approvare alcunche'. ''Noi ci proveremo comunque -assicura il ministro Maccanico, presentando a meta' dicembre il suo rapporto sulle riforme- anche se ormai dipende piu' dal tempo che da noi se si riusciremo a farla. Insistendo fino all'ultimo nella ricerca di intesa con l'opposizione''. Andreotti annuncia che il Senato dovra' votare anche un suo emendamento a favore del sistema proporzionale tedesco. E pone un problema tutt'altro che secondario: se palazzo Madama a gennaio approvera' la riforma ma altrettanto non accadra' a Montecitorio per l'intervenuto scioglimento delle Camere, andare a votare con la vecchia legge non indebolira' nei fatti la legittimazione del nuovo Parlamento?

(news.ch)

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